LombardoRadice·L • infinito §6 • Non antinomie ma dimostrazioni per assurdo

Parte sesta. Non antinomie ma dimostrazioni per assurdo



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6. Parte sesta. Non antinomie ma dimostrazioni per assurdo [pp. 97-120]
6.1. Esistono classi al di là degli insiemi [pp. 98-104]
6.2. Su di un linguaggio si parla in un altro linguaggio. Dalla Biblioteca di Babele alla Biblioteca di Cantor [pp. 105-113]
6.3. Costruibile e pensabile [pp. 114-120]
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TERMINI-CHIAVE
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• ‹aleph
• ambivalenza (ambivalenza verbale)
• antinomia (antinomie insiemistiche, antinomia di Richard)
• antitesi
• aritmetica
• assioma (assiomi)
• assiomatico (impostazione assiomatica)
• assurdo (dimostrazione per assurdo)
• astrazione (livelli di astrazione)
• biblioteca (Biblioteca di Borges, Biblioteca di Cantor)
• cardinale
• cardinalità (cardinalità del continuo)
• categoria
• classe (classi, classe totale)
• coerenza
• computabile (funzione computabile)
• consistenza (consistenza dei numeri naturali)
• contraddizione
• costruibile (insieme “costruibile”)
• costruttivismo
• costruttivista (intuizionisti costruttivisti)
• criterio (criterio inequivocabile)
• deduttivo (procedimento deduttivo)
• dialettica
• dimostrazione (dimostrazioni per assurdo)
• empirismo
• ente (ente mentale, enti primitivi)
• ‹forcing› (procedimento del ‹forcing› di Cohen)
• idea (idea illusoria)
• indecidibile (né vero né falso)
• infinitesimo (parte infinitesima)
• infinito
• insieme (insiemi, insiemi ordinari, teoria degli insiemi)
• intellegibile (universo dell’intellegibile)
• interpretazione
• intuizionista (intuizionisti)
• ipotetico-deduttivo (metodo ipotetico-deduttivo)
• lingua
• linguaggio (capacità di astrazione nel linguaggio)
• matematica
• materialismo dialettico (?)
• metamatematica
• modello
• negazione
• non-contraddittorietà (non-contraddittorietà dei numeri naturali)
• ontologia
• pensiero (pensiero astratto)
• pluralità (pluralità delle matematiche)
• postulato (postulati, postulare, postulato della scelta di Zermelo)
• pre-cantoriano (dizionario pre-cantoriano)
• pre-relativistico (spazio e tempo prerelativistici)
• principio (principio del terzo escluso, principio delle infinite scelte arbitrarie)
• programma (programma di Hilbert)
• pseudo-concetto
• razionalismo
• separazione (assioma di separazione di Zermelo)
• significato (significati)
• singoletto (singoletti, ‹singletons›)
• stringa (stringhe, parola-stringa)
• tempo
• teorema (teoremi)
• tipo (gerarchia di tipi)
• totalità (totalità relative, Totalità assoluta)
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(ª) espressione non esplicitamente contenuta nel testo.


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AUTORI E OPERE, PERSONAGGI, STUDIOSI
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• Albert (Stephen Albert, sinologo inglese, in ‹Finzioni›)
• Ariosto (Ludovico Ariosto: ‹Orlando Furioso›)
• Bernays
• Borges (Jorge Luis Borges: ‹Finzioni›)
• Brouwer (Jan Brouwer)
• Burali-Forti (1861-1931)
• Cantor (Georg Cantor)
• Castelnuovo (Guido Castelnuovo: ‹Spazio e tempo nella relatività di Einstein›)
• Cervantes (Miguel de Cervantes: ‹Quijote›)
• Cohen (Paul J. Cohen: ‹La teoria degli insiemi e l’ipotesi del continuo›)
• Dedekind (Richard Dedekind)
• Einstein
• Euclide (‹Elementi›)
• Fraenkel
• Frege
• Galileo (Galileo Galileiª)
• Gödel (Kurt Gödel)
• Hilbert (David Hilbert)
• James (William James)
• Menard (Pierre Menard, in ‹Finzioni›)
• Neumann (Janos “John” von Neumann, 1903-1957)
• Orlando (in ‹Orlando Furioso›)
• Peano (simbolo di appartenenza di Peano)
• Richard (antinomia di Richard)
• Russell (Bertrand Russell)
• Ts’ui Pên (antico erudito cinese, in ‹Finzioni›)
• Yu Tsun (in ‹Finzioni›)
• Zermelo (Ernst Zermelo, matematico tedesco)
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(ª) riferimento o dettaglio non esplicitato nel testo.
(ⁿ) menzionato nelle didascalie.


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COMMENTO
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Le strategie possibili per far fronte alle antinomie emerse dopo la teorizzazione cantoriana dei transfiniti sono essenzialmente due; quella più stringente, sostenuta dagli intuizionisti costruttivisti (proposta da Brouwer nel 1908) prevede l’abbandono del “principio del terzo escluso” e delle dimostrazioni per assurdo che su questo si basano; una proposizione può essere vera, falsa, o indecidibile; sono ammessi solo quegli insiemi che possono essere effettivamente costruiti, per esempio a partire dalla successione infinita ma numerabile degli interi; non sono accettate nemmeno le infinite scelte arbitrarie necessarie per generare il “continuo” dei numeri reali.

Il programma alternativo di Hilbert, che intendeva rifondare tutta la matematica sulla non-contraddittorietà dell’aritmetica, venne dimostrato impraticabile da Gödel nel 1931.

La seconda strategia (che LR sembra sostenere) è quella di ammettere l’esistenza di “classi” delle quali solo alcune possono essere qualificate come “insiemi”; fu Russell a proporre la definizione di una “gerarchia di tipi” per cui erano ammessi come insiemi solo collezioni di classi appartenenti a un medesimo “tipo” (e quindi in un certo senso “omogenee” quanto a livello di astrazione); con queste limitazioni, si può ad esempio escludere:
- che un insieme possa contenere se stesso come elemento;
- che si possa definire un insieme di tutti i possibili insiemi;
- che sia un insieme quello di tutti i numeri ordinali;
cadono in tal modo tutte le antinomie generate da questi casi.

Alla “gerarchia di tipi” corrisponde una “gerarchia dei linguaggi” (e qui entra in gioco la “biblioteca di Babele” di Borges) secondo la quale un linguaggio non può (legittimamente?) parlare di se stesso, ma si deve ricorrere a un meta-linguaggio; per parlare del meta-linguaggio occorre allora un meta-meta-linguaggio, e così via, all’infinito. Tuttavia LR non considera che una tale struttura non corrisponde alla realtà né dal punto di vista linguistico (l’utilizzo concreto delle lingue), né da quello storico (come le lingue si sono evolute; filogenetico?), né da quello dello sviluppo dell’individuo (come le lingue vengono apprese; ontogenetico?); si tratta in definitiva di una costruzione “a posteriori” del tutto artificiale, con l’unico scopo di evitare le contraddizioni.


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ESTRATTI
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•[6·1·19]• extra x 4
Seguiamo, nella sostanza, la costruzione fatta da Bertrand Russell di una ‹gerarchia di tipi›. Punto di partenza sono gli ‹individui›, gli atomi, gli elementi singoli che non possono essere ridotti a parti più semplici. Potremo chiamare di livello 0 i “singoletti” (‹singletons›), cioè gli insiemi composti da un solo atomo. Il passo successivo sarà la costruzione di insiemi di livello 1, quelli che hanno per elementi soltanto insiemi di livello 0, o atomi. Gli insiemi composti da: me stesso, mia madre, mio padre, mia sorella, da singoli individui, sono di ‹livello 0›; la mia famiglia è invece un insieme di ‹livello 1›. Di ‹livello 2› sarà allora l’insieme delle famiglie abitanti in un blocco; di ‹livello 3› l’insieme dei blocchi di una strada pensati come insiemi delle famiglie che abitano in essi…; di ‹livello 4›, inventatelo voi (insieme degli insiemi degli insiemi delle famiglie che…). Le Nazioni Unite possono essere, e sono, di fatto, definite come insieme degli Stati loro membri (loro elementi); ognuno di essi è costituito da un insieme di regioni, ciascuna delle quali è un insieme di comunità, le quali a loro volta… fino a che, scendendo giù attraverso città, strade, edifici, famiglie arriviamo ai singoli individui.

Le Nazioni Unite, definite come insieme degli Stati loro membri, sono quindi di livello relativamente alto. Relativamente alla nostra capacità di astrazione nel linguaggio. In verità, anche se si tratta di livello dieci o venti, esso è ridicolmente basso nei confronti dei livelli mille, o un milione, o un miliardo di miliardi di miliardi di…, che sono pur tutti raggiungibili, condensando via via in un unico concetto, cioè pensando come elementi compatti, gli insiemi dei livelli in precedenza costruiti.

Possiamo così costruire classi corrispondenti a livelli di astrazione sempre più alti, ma pur tuttavia sempre finiti. Allora però, facendo una nuova astrazione, pensando la ‹classe totale›, che ha per suoi elementi tutti gli insiemi, quale che sia il loro livello, a essa non possiamo attribuire un livello: c’è un «salto» di qualità nella astrazione. La classe totale si colloca perciò al di là delle classi finitamente costruibili a partire da atomi. Perché stupirci allora dell’emergere di una contraddizione se vogliamo considerare alla stessa stregua le classi di livello finito, e la classe di livello transfinito che ha quelle per elementi? Proviamo, quindi, a chiamare ‹insiemi› soltanto le classi di livello finito. Se facciamo questo, ecco che le antinomie di Russell, di Cantor, di Burali-Forti si trasformano nelle seguenti dimostrazioni per assurdo:
1) è assurdo supporre che sia un insieme la classe formata da tutti gli insiemi che non possiedono se stessi come elemento;
2) è assurdo supporre che sia un insieme la classe formata da tutti gli insiemi;
3) è assurdo supporre che sia un insieme la classe formata da tutti i numeri ordinali.

•[6·1·22]•
La caratteristica di una classe da chiamare «insieme» è quella di poter servire come mattone per costruire una classe-insieme di livello più elevato; può essere, cioè, pensata, come ‹elemento› costitutivo di un’altra classe. Ciò non è più possibile per le classi che non sono “finitamente generabili”, che sono al di là di ogni livello finito. Esse non possono essere compresse nel pensiero in un unico elemento con il quale costruire nuove classi.


— § —

•[6·2·11]• extra (inizio)
Attenzione, la ‹lingua›, dal punto di vista ‹alfabeto›, e, se volete, anche ‹parole› (intese come successioni di lettere senza indice aventi ‹almeno› un senso), ‹non è cambiata›; e non sono ‹cambiate› le regole per la formazione di frasi corrette, ‹non è cambiata la sintassi›. La novità non sta nella ‹sintassi›, bensì nella ‹semantica›: il patrimonio dei «significati», che possiamo chiamare ‹linguaggio›, si è arricchito. Cantor o Einstein, continuando a usare la lingua 1870, sono andati al di là del linguaggio 1870.

Dobbiamo, a questo punto, vedere bene cosa significa esattamente linguaggio 1870, o diciamo meglio, per metterci nel caso più generale, linguaggio di partenza L0.

•[6·2·13]•
L0 è un insieme di ‹significati›, non di simboli grafici (successioni o stringhe di lettere dell’alfabeto prefissato). La parola «parola» nel linguaggio corrente è ambigua: è una stringa di lettere o un significato? Noi ne prendiamo ora la sola accezione semantica:
Una parola è una successione di lettere avente uno e un solo significato›.

•[6·2·14]•
Attenzione: anche le frasi di un dizionario ‹semantico› debbono avere un ben determinato significato. Non basta che una frase sia ben formata secondo le regole sintattiche della lingua nella quale è scritta; per essere una ‹frase› nel ‹linguaggio› L0 deve avere in esso un senso, e uno soltanto. (Le frasi bisenso debbono essere escluse non meno delle ‹parole bisenso› o polisenso).

•[6·2·15]•
Prendiamo come esempio la frase: «grande cardinale». È una frase del linguaggio L0, 1870, non del linguaggio Lx di oggi. Infatti supponiamo che la stringa di lettere «grande» sia stata scelta nel vocabolario dei significati 1870 nella accezione: «di altezza superiore a 1,80», «cardinale» venga preso nella accezione «principe di Santa Romana Chiesa». Allora la frase ‹grande cardinale› ha uno e un solo significato: «un elettore del papa alto più di un metro e ottanta». Nella lingua di tutti i giorni [1] 1980, ‹grande cardinale› può significare invece anche numero cardinale infinito più grande di tutti i numeri cardinali di una certa classe, e «irraggiungibile» a partire da essi con le tecniche tipo «passaggio all’insieme potenza» [2]. Ma allora in un linguaggio di significati Lx del 1980, occorrerà usare due frasi diverse, ciascuna con uno e un solo senso, il che si potrà conseguire coll’aggiunta di un indice numerico:
• (‹grande cardinale›) .1, o grande cardinale
• (‹grande cardinale›) .2, o Grande Cardinale

Ripetiamolo, perché è un punto decisivo. ‹Grande Cardinale› appartiene (dal punto di vista sintattico) alla ‹lingua› italiana, che si può supporre la stessa dal 1870 a oggi: non appartiene però al ‹linguaggio› italiano 1870, se per «linguaggio» intendiamo, come sopra stabilito, un insieme di parole e frasi con significato univoco.

•[6·2·17]•
Disponiamo adesso in ordine tutte le parole unisignificanti, e le frasi-unisignificanti, insomma tutte le stringhe unisignificanti di L0. Per la analisi già fatta a proposito della Biblioteca di Babele, sappiamo che tutte le stringhe ‹possibili› di lunghezza arbitraria composte con i simboli di un dato alfabeto (finito) costituiscono un insieme ‹numerabile›. Pertanto, le stringhe (uni)significanti di L0, che di tutte le stringhe possibili sono solo una parte, costituiranno un insieme ‹al più numerabile› [3]. Numeriamolo una volta per tutte, e facciamo corrispondere a ogni stringa-significato addirittura il suo numero d’ordine nella numerazione scelta. Avremo:

L0 = (1 – 2 – 3 – 4 … t …)

•[6·2·18]•
Allora, i numeri naturali che nel linguaggio L0 sono definiti da stringhe con meno, diciamo, di 100 lettere, sono in numero finito; tra di essi ci sarà pertanto un massimo, diciamo X. «Il più piccolo numero, indefinibile con 100 lettere al più, di L0» è allora matematicamente ben definito; ed è ovviamente X + 1. Ma la frase tra virgolette che lo definisce, con meno di 100 lettere, ‹non appartiene› a L0, giacché essa contiene la parola «L0», e quest’ultima, per avere un senso, presuppone dati ‹tutti i significati› che costituiscono L0.

Abbiamo aperto questo capitolo con la affermazione di Stephen Albert secondo la quale «la causa recondita che vieta la menzione» del ‹nome› (parola con un significato) «tempo» nel libro del saggio cinese immaginato da Borges in una sua ‹finzione›, sta nel fatto che l’Autore, con quel libro, intendeva appunto definire il significato della scrittura «tempo».

•[6·2·20]• extra (fine)
È la stessa «causa recondita» che vieta la menzione del nome «L0» quando si parla ‹nel› linguaggio L0. Per parlare ‹su› L0, occorre usare un linguaggio nuovo, che va ‹al di là› di L0, perché contiene la parola «L0», che in L0 stesso non ci può essere. “Al di là” in greco si dice ‹metá›; e perciò da ora in poi distingueremo il ‹linguaggio› nel quale si parla dal ‹metalinguaggio› che di quel linguaggio e ‹su› quel linguaggio considerato come totalmente dato consente di parlare.

— § —

•[6·2·23]• extra
Aggiungendo ω al linguaggio L0, potremo, in modo del tutto analogo, andare avanti e aggiungere ordinatamente una infinità numerabile di parole-significati: quelle che, per essere definite, richiedono l’uso, oltre che delle lettere dell’alfabeto iniziale, anche del ‹nuovo simbolo› ω. Passiamo allora dal linguaggio iniziale:

L0 = (1, 2, 3, …, n, …)

al suo metalinguaggio di «livello 1»:

L1 = (1, 2, 3, …, n, …, ω, ω + 1, ω + 2, …).


L1 è il metalinguaggio più «povero» tra quelli nei quali si può parlare di L0.

— § —

•[6·2·27]• extra
Il fatto è che la ‹transfinita carica di significati› di ‹una› parola-stringa scritta in un ‹alfabeto finito›, è mascherata nel linguaggio comune dal fatto che noi la leggiamo in un contesto che ne chiarisce (o definisce) volta a volta il significato specifico, senza usare un indice aggiuntivo per ogni significato.

— § —

•[6·2·30]• extra x 2
Dentro la A, la B = B0 costituisce un primo, piccolissimo, trascurabile reparto, molto importante però perché da esso occorre iniziare visita, letture e studi. Sugli ‹ex-libris› di B0 c’è stampigliato il simbolo L0, perché i suoi volumi vanno letti attenendosi rigorosamente ai significati che le parole-stringhe hanno in L0, linguaggio iniziale per il quale è sufficiente l’alfabeto iniziale di 25 lettere. Segue poi il reparto B1, i volumi del quale vanno interpretati nel linguaggio L1, e che recano quindi in copertina la stampiglia L1. Seguono poi i reparti B2, B3, …, Ba, … transfinitamente. Se ai volumi mancano le stampiglie che indicano in quale linguaggio sono scritti, allora la ben ordinata Biblioteca di Armonia diventa la caotica, ciclica, «malamente infinita» Biblioteca di Babele.

•[6·2·31]•
Eppure, in un’altra delle sue ‹finzioni›, Borges ha intuito la importanza di quella che noi abbiamo chiamato la stampiglia, e che nel racconto ‹Pierre Menard autore del «Chisciotte»› è l’autore del volume. Pierre Menard non trascrive il ‹Quijote› di Miguel de Cervantes, lo ‹riscrive› tale e quale eppure diverso, ‹alius et idem›.
«Il testo di Cervantes e quello di Menard sono identici, ma il secondo è quasi infinitamente più ricco […]. Il raffronto tra le pagine di Cervantes e quelle di Menard è senz’altro risolutore. Il primo, per esempio, scrisse (‹Don Chisciotte›, parte I, capitolo IV): “… la verità, la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e notizia del presente, avviso dell’avvenire”.

«Scritta nel secolo XVII, scritta da Cervantes, quest’enumerazione è un mero elogio retorico della storia. Menard, per contro, scrive: “… la verità, la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e notizia del presente, avviso dell’avvenire”.

«La storia, ‹madre› della verità; l’idea è meravigliosa. Menard, contemporaneo di William James, non vede nella storia l’immagine della realtà, ma la sua origine. La verità storica, per lui, non è ciò che avvenne, ma ciò che noi giudichiamo che avvenne. Le clausole finali – ‹esempio e notizia del presente, avviso dell’avvenire› – sono sfacciatamente pragmatiche».

— § —

•[6·2·33]• extra
Se per esempio scriviamo «storia» e «Storia», tutto diventa chiaro. Non c’è nulla di assurdo, tutto diventa perfettamente razionale, anche se appare «al di là del credibile», per inveterate confusioni mentali tra parola-simbolo e parola-significato.

— § —

•[6·3·1]• extra (inizio)
Stiamo citando un articolo pubblicato nel 1964 da Kurt Gödel, «Che cos’è il problema del continuo di Cantor?». Il grande matematico e filosofo austriaco, recentemente scomparso, dice in esso tra l’altro:
«Il problema del continuo di Cantor, qualunque posizione filosofica si assuma, innegabilmente ha almeno questo significato: determinare se dagli assiomi della teoria degli insiemi, quali sono formulati nei “diversi” sistemi, si possa ricavare una risposta, e in caso affermativo, quale risposta».

Il problema della ipotesi del continuo viene così posto in modo del tutto analogo a quello del «postulato della parallela» di Euclide. Da esso conviene partire per far comprendere al lettore non specialista il significato generale della ‹impostazione assiomatica›.

•[6·3·3]•
Il vecchio Euclide, che insegnò ad Alessandria attorno al 300 a.C., nei suoi famosi ‹Elementi› usò il “procedimento deduttivo”. Egli assunse come vere, senza dimostrazione, alcune proprietà fondamentali degli enti geometrici primitivi: punto, retta, piano. Da quelle proprietà, ‹postulate› all’inizio, chiamate appunto perciò ‹postulati› o ‹assiomi› dedusse nuove proprietà: i teoremi, facendo ricorso soltanto alla logica e alle sue leggi. Euclide però, e con lui tutti i geometri e i filosofi, per più di duemila anni, non dubitavano che punti, rette, piani fossero enti razionali perfettamente ben definiti, e che gli assiomi fossero ‹verità primitive evidenti›.

Il metodo assiomatico moderno, invece, non è ‹soltanto deduttivo›, è ‹ipotetico-deduttivo›. In che cosa consiste la differenza, che è, si badi bene, radicale?

Consiste nel modo di considerare gli assiomi: non più verità evidenti dalle quali si parte, ma semplici ‹ipotesi›. Ipotesi, ed è questo il punto, relative a enti del pensiero non definiti. ‹Se› si considerano enti concreti che verificano le proprietà espresse dagli assiomi, ‹allora› valgono anche le proprietà espresse dai teoremi da loro dedotti per via strettamente logica. ‹Se … allora›: deduzione da ipotesi, metodo ipotetico-deduttivo. Questa diversa impostazione consente di interpretare in diversi modi gli enti dei quali si discorre negli assiomi, perché essi sono tenuti soltanto a verificare proprietà formali. A ogni interpretazione degli enti «primitivi», corrisponde un ‹modello› (concreto) della ‹teoria assiomatica› (di per sé astratta, formale).

•[6·3·6]• extra (fine)
Storicamente, il punto critico fu la teoria delle parallele in geometria piana. Il 5° assioma di Euclide afferma che per un punto fuori di una retta in un piano passa una retta e una soltanto che non incontra la retta data. Per duemila anni, i geometri, convinti che il fatto enunciato dovesse essere ‹comunque vero›, discussero se dovesse essere considerato un postulato (‹verità primitiva› indimostrabile) o non fosse piuttosto un teorema (‹verità deducibile› dai postulati). Non è affatto difficile vedere, e lo si spiega in quasi tutti i primi bienni di scuola secondaria superiore, che se chiamo «rette» le circonferenze massime di una sfera, «punti» le coppie di antipodi, molte delle proprietà che valgono nella geometria di Euclide (non tutte) sono conservate, ma il parallelismo salta per aria, perché due rette si incontrano sempre in un punto (cioè: due circonferenze massime hanno sempre in comune una coppia di antipodi, così come succede a due meridiani che passano per la coppia dei poli). Se ci si libera dalla convinzione filosofica del carattere unico, assoluto della geometria, concepita come ‹scienza di enti oggettivi›, non è quindi tecnicamente difficile convincersi della esistenza di geometrie euclidee e non, di tante ‹geometrie al plurale›; ma bisogna allora concepirle come ‹verità relative e non assolute›, come sistemi ipotetico-deduttivi («se… allora…»).

— § —

•[6·3·23]• extra x 2
Primo›: se la pluralità degli spazi pensabili (scoperta delle geometrie non euclidee) rappresentò una grossa difficoltà per la «retta ragione umana», una difficoltà ancora maggiore sarà rappresentata dalla accettazione-comprensione della pluralità delle matematiche. In verità, tutti abbiamo istintivamente nei confronti degli insiemi l’atteggiamento “ontologico” che aveva Georg Cantor, e del quale parleremo nella seconda appendice: gli insiemi sono quello che sono, appartengono al mondo dell’Essere.

•[6·3·24]•
Secondo›: la vicenda intellettuale descritta mi sembra una bella controprova del fatto che il materialismo dialettico (ne parleremo nella seconda delle due appendici che seguono) non ha niente a che fare con l’empirismo, con il costruttivismo; viceversa, la soluzione del problema del continuo, elaborata sul terreno della scienza-tecnica, ha una forte rilevanza filosofica di controprova della dialettica contro l’ontologia.


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ANNOTAZIONI E SPUNTI
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•[6·1·19]• «[…] la mia famiglia è invece un insieme di ‹livello 1›»: affermazione che ovviamente si basa sulla definizione di “famiglia”; poiché subito sopra aveva citato come singoletti “me stesso”, “mia madre”, “mio padre”, “mia sorella”, si suppone che la famiglia sia da intendere in senso tradizionale, senonché non tutte le società si basano sulla stessa struttura familiare. D’altra parte, se per “famiglia” s’intende qualsiasi associazione di individui, anche il circolo del tennis o una cooperativa diventano “famiglie”, fino a poter considerare “famiglie” anche gruppi di individui che non hanno fra loro alcuna relazione, come “tutti i nati il 1° gennaio” ecc. Se, spingendosi ancora oltre, si considera l’intera popolazione mondiale A, le “famiglie” possibili (e pensabili) non sarebbero altro che le parti di A, P(A), definite nella parte 4ª come P(M) per un generico insieme M.
NOTA 1: sul versante opposto, sembrerebbe del tutto legittimo concepire “famiglie monopersonali”, cioè “insiemi di livello 1” che contengono unicamente un singoletto, e così via: condomini che a loro volta contengono una sola famiglia (magari di una sola persona), strade che contengono solo un condominio e così via, all’infinito… sembrerebbe allora che a livelli crescenti non debbano necessariamente corrispondere popolazioni crescenti, come si direbbe dalla descrizione di LR.
NOTA 2: e l’insieme “vuoto”, quello privo di elementi, che fine fa? Sarà possibile definire una “famiglia senza persone”, un “condominio senza famiglie” ecc.? Se così fosse, l’insieme “vuoto” non sarebbe più unico, come insegna la teoria “classica” degli insiemi, ma bisognerebbe definirne almeno uno per livello: un “singoletto” (individuo) vuoto, una famiglia vuota, un condominio vuoto ecc. Siamo nel dominio della fanta-insiemistica? Ovviamente il volume di LR non è un trattato né un manuale, e tuttavia certe domande esigono risposte.

•[6·1·22]• «[…] non è più possibile per le classi che non sono “finitamente generabili”, che sono al di là di ogni livello finito»: questa affermazione non sembrerebbe escludere classi “miste”, come per esempio le “famiglie” (livello 1) che abitano un “condominio” più l’amministratore del condominio in questione, inteso come “singoletto” (livello 0) e non come “famiglia unipersonale”. Una tale classe non potrebbe essere “compressa”, ad esempio, in occasione di una riunione condominiale?

•[6·2·11]• «[…] la ‹lingua› […] ‹alfabeto› […] ‹parole› […] ‹sintassi› […] ‹semantica›: il patrimonio dei “significati”, che possiamo chiamare ‹linguaggio› […]»: LR usa termini che fanno riferimento alla linguistica, ma non sempre nell’accezione propria di questa disciplina; il linguaggio, in particolare, non è riducibile al “patrimonio dei significati” legati alle parole, e tantomeno all’alfabeto, che è soltanto un aspetto tecnico relativo alla scrittura. Il “linguaggio” consente anche di esprimere un “senso”, spesso mediante il “significato”, ma a volte anche “facendone a meno” o persino “nonostante”, quando le parole sono usate per esprimere il contrario del loro significato letterale, e non è una bugia.

•[6·2·13]• «Una parola è una successione di lettere avente uno e un solo significato»: è una definizione forse “ingenua” e un po’ formalistica (nel senso del formalismo matematico), ma comunque di certo problematica dal punto di vista linguistico; le lettere, ad esempio, sono solo un artificio utile alla scrittura; i suoni che sono realizzazioni della lingua parlata sono costituiti da “fonemi” che non necessariamente corrispondono alle “lettere” usate nella scrittura (alfabetica); “uno e un solo significato” risulta in realtà piuttosto difficile da definire, si pensi ai molti significati della parola “piano”, che non sempre è facile distinguere nettamente l’uno dall’altro, ad esempio “parla piano” può significare sia sottovoce, sia lentamente, sia entrambi.

•[6·2·14]• «[…] un ben determinato significato […] una frase […] deve avere in esso un senso, e uno soltanto»: LR sembra usare “senso” e “significato” come fossero sinonimi, e non lo sono; tuttavia, anche volendoci limitare all’accezione “significato”, simili affermazioni sono smentite dall’evidente considerazione che nei dizionari viene differenziata l’accezione dei termini da descrivere, mai (o quasi mai) quella dei termini usati nella descrizione, il che implica che chi scrive il dizionario confida nella capacità del lettore di individuare da sé l’accezione corretta dei termini.
NOTA: questa capacità di “interpretare le parole” è una parte fondamentale del “linguaggio”.

•[6·2·15]• «un elettore del papa alto più di un metro e ottanta»: il «…ben determinato significato…» del cpv. precedente può condurre a risultati evidentemente grotteschi come questo – e non è chiaro se LR se ne renda conto e lo utilizzi intenzionalmente, ma si direbbe di no – quando si faccia riferimento al solo significato manifesto dei termini con criteri combinatori e computazionali; richiama alla mente qualche suggerimento idiota fornito talvolta dal correttore ortografico (che ai suoi tempi LR non aveva certo potuto sperimentare), mentre nessun umano – vogliamo almeno sperare – utilizzerebbe l’espressione “grande cardinale” per indicare ciò che afferma LR (ai limiti si potrebbe intendere nel senso, metaforico, della statura morale, o politica).

•[6·2·17]• Nella nota 3: «[…] nel linguaggio L0 dell’essere umano nel primo anno di vita […]», ma LR non si chiede minimamente come avvenga l’acquisizione del linguaggio da parte del bambino; se infatti i “significati” sono definiti in base ad altri significanti (come nei dizionari), si ha lo stesso problema dei “postulati” scientifici: da qualche parte bisogna pur cominciare.
NOTA: ancor meno LR si chiede dove stia la specificità dell’essere umano.
•[ivi]• Sempre nella nota 3: «[…] che spesso è costituito dalla sola parola “mamma” […]», chissà che cosa LR pensa che il neonato e poi il bambino fino a un anno d’età possa pensare, avendo a disposizione un unico termine, per quanto fondamentale e polisemico, e per molti mesi neppure quello. Ma non bisogna dimenticare che si tratta di un comunista engelsiano con pericolose affinità con la filosofia di Wittgenstein, ed è altrettanto evidente che per lui il pensiero per immagini non esiste oppure non ha alcuna rilevanza.

•[6·2·18]• «[…] la parola “L0” […] per avere un senso, presuppone dati ‹tutti i significati› che costituiscono L0»: è un’affermazione un po’ capziosa, giacché lo stesso si potrebbe dire per ciascuna parola utilizzata, e non solo per “L0” che, giova ricordare, era stato inizialmente definito come abbreviazione di “linguaggio di partenza”, che non farebbe certo sforare il limite di 100 lettere.

•[6·2·20]• «[…] occorre usare un linguaggio nuovo […]»: ma la costruzione di LR sembra alquanto artificiosa – anche se certo l’idea non è sua – perché in realtà la “lingua” di tutti questi supposti metalinguaggi è sempre la stessa, e certo non basta l’introduzione del riferimento al linguaggio precedente Lx–1 per creare un “linguaggio nuovo”; se così fosse, tra l’altro, nessuno avrebbe il tempo, per la brevità della vita umana e per le nostre limitate capacità di apprendimento, di imparare gli infiniti metalinguaggi che servono per parlare dei linguaggi precedenti, e questo già evidenzia che si tratta in realtà di un linguaggio unico.

•[6·2·23]• Nelle formule: «[…] (1-2-3 … n …)», e «[…] (1-2-3 … n …, ω – ω + 1-, ω + 2 …) [sic!]», le notazioni sono un po’ confusionarie; nella formula del cpv. precedente (quella con gli ω) gli elementi erano separati da virgole, non da trattini; mantenendo tale convenzione si avrebbe:

L0 = (1, 2, 3, …, n, …)

L1 = (1, 2, 3, …, n, …, ω, ω + 1, ω + 2, …)

che sembra scrittura più chiara e più leggibile; formule modificate.
NOTA: come risulta evidente dal confronto delle due espressioni, L1 include L0, ma allora non si capisce perché mai occorra definire due (o addirittura n) linguaggi – o lingue? – differenti.

•[6·2·27]• «[…] la ‹transfinita carica di significati› di ‹una› parola-stringa scritta in un ‹alfabeto finito› […] noi la leggiamo in un contesto […]»: ma occorre anche considerare che lo stesso lettore, i suoi pensieri, le sue esperiente, le sue stesse letture precedenti fanno parte del “contesto”, e questo contesto specifico di ogni lettore (e di ogni lettura) finisce per dare al testo letto un “senso” ogni volta diverso (più che un significato).

•[6·2·30]• «[…] la ben ordinata Biblioteca di Armonia diventa la caotica, ciclica, “malamente infinita” Biblioteca di Babele»: non però “malamente infinita” nel senso di Hegel (‹die schlechte Unendlichkeit› menzionata nel 1° capitolo, vedi cpv. 1·1·7), che si riferiva all’infinito inteso in senso banalmente “potenziale”, ma nel senso di LR, che evidentemente aderisce alla soluzione proposta da Russell al problema delle antinomie.

•[6·2·31]• Prima della citazione: «Pierre Menard non trascrive il ‹Quijote› di Miguel de Cervantes […]», il titolo completo dell’opera di Miguel de Cervantes Saavedra (1547-1616), scrittore, romanziere, poeta, drammaturgo e militare spagnolo, è ‹El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha›, vedi wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Miguel_de_Cervantes).
•[ivi]• Nel 2° cpv. della citazione: «Menard, per contro, scrive: … [sic!] “la verità […] dell’avvenire”», non si capisce perché i puntini di sospensione debbano essere fuori delle virgolette “inglesi”; nel cpv. precedente (passo identico) erano all’interno; uniformato al precedente.

•[6·2·33]• «Se per esempio scriviamo «storia» e «Storia», tutto diventa chiaro»: ma il discorso si complicherebbe alquanto se qualcuno volesse a sua volta riscrivere l’opera di Menard (o di Borges), e se qualcun altro volesse riscrivere la riscrittura e così via, all’infinito; allora non basterebbero più grassetti e corsivi per differenziare le accezioni dei termini – ammesso che tali differenziazioni abbiano un senso e possano aggiungere qualcosa alla scrittura (o piuttosto alla lettura).
•[ivi]• «[…] per inveterate confusioni mentali tra parola-simbolo e parola-significato»: a parte che la distinzione è semmai tra “significante” e “significato”, dai tempi del de Saussure si sa che la parola sta “a cavallo” dei 2 mondi e non avrebbe alcun senso se così non fosse. Non c’è quindi alcuna “confusione”; il linguaggio trae la sua essenza e la sua ragion d’essere proprio dal continuo passaggio da un livello all’altro (potremmo anche dire: realtà fisica e realtà psichica) – che è poi quello che de Saussure chiama “circuito della parola”.

•[6·3·1]• «Il grande matematico e filosofo austriaco, recentemente scomparso […]»: Kurt Friedrich Gödel (1906-1978) è definito da wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Kurt_Gödel) “matematico, logico e filosofo austriaco naturalizzato statunitense”, ma in realtà nacque in Moravia (a Brno), allora facente parte dell’impero austro-ungarico; divenne poi cittadino cecoslovacco (1918), poi austriaco (1929); nel 1938, in seguito all’annessione dell’Austria da parte della Germania hitleriana, diventò automaticamente cittadino tedesco, ma nel 1940 si trasferì negli USA (viaggiando in treno attraverso URSS e Giappone – in piena 2ª guerra mondiale?) e nel 1948 diventò cittadino americano. Una curiosità: nel settembre del 1938 (quindi alcuni mesi dopo l’‹Anschluss›) aveva sposato Adele Porkert, una «ballerina viennese incontrata in un locale notturno» (fonte: wikipedia) «che lo sostenne fino all’ultimo giorno». Nei primi giorni del 1978 fu ricoverato in ospedale a Princeton per malnutrizione e inedia, causati da una grave forma di anoressia che lo aveva portato a pesare 29 chilogrammi; continuando a rifiutare il cibo (temeva di essere avvelenato) morì il 14 gennaio.

•[6·3·3]• «Il vecchio Euclide […]»: “vecchio”, senza dubbio, nel senso di “antico”, perché, sebbene sia sempre raffigurato con una lunga barba, non si hanno praticamente su di lui notizie biografiche; si sa che insegnò nella scuola annessa alla famosa biblioteca di Alessandria durante il regno di Tolomeo I Soter (~367-282 a.e.v., re dal 305).
•[ivi]• «Euclide però […non dubitava…] che gli assiomi fossero ‹verità primitive evidenti› […]»: in realtà è assai difficile sapere cosa pensasse Euclide, anche perché gli ‹Elementi› ci sono pervenuti attraverso copie molto posteriori, con aggiunte e interpolazioni di altri autori; Lucio Russo, ad esempio, la pensa diversamente (vedi ‹La rivoluzione dimenticata›). [TBV]

•[6·3·6]• «Il 5° assioma di Euclide afferma che […]»: quella che segue è la forma più comunemente nota del 5° assioma, per quanto quella fornita dallo stesso LR nel 2° capitolo della 1ª parte (Fig·1·2·1) fosse alquanto diversa:
Se una retta, incontrandone altre due, forma gli angoli interni da una stessa parte minori di due angoli retti, le due rette prolungate all’infinito si incontrano dalla parte nella quale si trovano i due angoli minori di due retti.
Tuttavia una formulazione implica l’altra, esse sono dunque sostanzialmente equivalenti.

•[6·3·23]• «[…] gli insiemi sono quello che sono, appartengono al mondo dell’Essere»: è un’affermazione che si lega al problema dell’esistenza (e del tipo di esistenza) degli enti (teorici, ma a volte anche intuitivi, si pensi al concetto di numero) che costituiscono l’oggetto della matematica e della geometria.
NOTA: esistono infatti idee e concetti, come quello menzionato di numero, ma si può pensare anche alla linea, che acquisiamo e impariamo a manipolare nei primi anni di vita, ben prima che il nostro pensiero acquisisca un “abito” e una struttura razionali.

•[6·3·24]• «[…] controprova della dialettica contro l’ontologia»: a questo punto non è chiaro cosa LR intenda, ma bisogna rinviare alla 2ª appendice, più filosofico-politica. [TBV]

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[] Lucio Lombardo Radice, ‹L’infinito›, Editori Riuniti (1981), 2006.
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