LombardoRadice·L • infinito §2 • Gli infiniti in atto…

Parte seconda. Gli infiniti in atto non possono essere pensati



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2. Parte seconda. Gli infiniti in atto non possono essere pensati [pp. 19-35]
2.1. Dall’infinitesimo di Democrito al mistero delle dimostrazioni di Archimede [pp. 20-28]
2.2. La nuova scienza ha bisogno dell’infinito in atto [29-35]
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TERMINI-CHIAVE
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• Accademia (Accademia di Platone)
• aristotelico (gli aristotelici)
• assurdo (dimostrazione per assurdo)
• astronomo
• atomismo
• atomista
• atomistico (concezione atomistica)
• baricentro
• cilindro
• circonferenza
• composizione (composizione del continuo, Cantor)
• cono
• conoscenza
• continuo (il continuo)
• copernicano (sistema copernicano)
• differenziale (calcolo differenziale)
• dimostrazione
• divisibile
• esaustione (metodo di esaustione, Eudosso)
• euristico (procedimento euristico, valore euristico)
• filosofia (filosofia ufficiale)
• geografo
• geometria (geometria degli indivisibili)
• giacitura (piano)
• greco (tradizione greca)
• indivisibile (indivisibili, infiniti indivisibili non quanti)
• infinitesimale (calcolo infinitesimale)
• infinitesimo (infinitesimi)
• infinito
• leva (Principio di Archimede)
• limite
• linea
• matematico
• meccanica
• negazione (2 negazioni affermano)
• parabola
• parabolico (specchi parabolici)
• paraboloide
• paradosso (paradossi dell’infinito)
• piramide
• poligono (poligono iscritto, poligono circoscritto)
• positivista
• pragmatico (atteggiamento pragmatico)
• prisma
• provvidenza
• quanto (un quanto)
• Rinascimento
• scaloide
• teologia (teologia cattolica)
• ustorioª (specchi ustori)
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(ª) espressione non esplicitamente contenuta nel testo.


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AUTORI E OPERE, PERSONAGGI, STUDIOSI
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• Archimede (~287ª-212 a.e.v.)
• Archimede Pitagorico (Paperino, Qui, Quo, Qua)
• Belloni (Lanfranco Belloni: ‹Torricelli›, 1975)
• Bonaventura (Frate Bonaventura, amico di Torricelli)
• Cantor (Georg Cantor)
• Cavalieri (Bonaventura Cavalieri, 1598-1647)
• Dante (‹Divina commedia›ª)
• Democrito (~470~370 a.e.v.)
• Enriques (Federigo Enriques, 1871-1946)
• Eratostene (~276~192 a.e.v.)
• Euclide (‹Elementi›)
• Eudosso (Eudosso di Cnido, ~400~350 a.e.v.)
• Galilei (‹Dialogo sui massimi sistemi del mondo›, 1632)
• Guldino (Paolo Guldino, 1577-1643, matematico aristotelico)
• Heiberg (J.L. Heiberg, filologo danese)
• Leibniz (Gottfried Wilhelm Leibniz, 1646-1710: ‹Nova methodus…›, 1664)
• Newton (Isaac Newton, 1642-1727: ‹Philosophia naturalis principia mathematica›, 1687)
• Platone (Accademia di Platone)
• Torricelli (Evangelista Torricelli, 1608-1647: ‹Opera geometrica›, 1644)
• Wallis (John Wallis, 1616-1703: ‹Arithmetica infinitorum›, 1656)
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(ª) riferimento o dettaglio non esplicitato nel testo.


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COMMENTO
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Archimede enuncia il suo “metodo” in una lettera a Eratostene che venne ritrovata da Heiberg (in un palinsesto?) solo nel 1906; due sembrano essere gli aspetti innovativi: (1) l’uso di considerazioni “meccaniche” (baricentro, principio della leva) per risolvere problemi di geometria; (2) il considerare una figura geometrica di dimensioni n come formata da infinite componenti di dimensioni n-1 (una figura piana da segmenti, un solido da sezioni piane).

Il trucco “euristico” di approssimare figure solide (piramidi, coni) mediante scaloidi pare fosse dovuto a Democrito, tuttavia all’epoca non veniva accettato come “dimostrazione”. Eudosso aveva poi introdotto il “metodo di esaustione”, una sorta di passaggio al limite che consentiva, ad esempio, di approssimare un cerchio attraverso una serie di poligoni con numero via via crescente di lati. Ma il metodo di Eudosso non era che un modo per “coprire” con un infinito potenziale un pensiero che era invece basato su un infinito attuale (le infinite sezioni, di area o di volume infinitesimo).

Consapevolmente o meno, il “metodo” di Archimede viene ripreso, quasi 2 millenni dopo, da Galilei e dai suoi allievi Cavalieri e Torricelli che, come l’inglese John Wallis, propongono il “metodo degli indivisibili”, in aperta polemica con la filosofia aristotelica e con la teologia cattolica allora dominanti. Nel campo della geometria, Galilei è più cauto dei suoi allievi nell’attribuire valore dimostrativo a considerazioni basate sugli indivisibili, però sostiene le loro concezioni sia per motivi filosofici sia per la loro utilità nello studio della fisica e della meccanica. Il “metodo degli indivisibili” verrà superato dal calcolo infinitesimale proposto, di lì a qualche decennio, prima da Leibniz e poi, indipendentemente, da Newton, e il concetto di “limite” (com’era avvenuto con Eudosso) farà dimenticare gli infiniti indivisibili attuali in favore di un infinito puramente potenziale.


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ESTRATTI
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•[2·1·16]•
Secondo un antico racconto, che deve contenere una buona parte di verità, Archimede morì sessantacinquenne [sic!]. Fu ucciso da uno dei soldati romani che avevano fatto irruzione in Siracusa conquistata dopo un lungo assedio, irritato dal fatto che il vecchio sapiente l’avesse spinto via lontano dai disegni che tracciava meditabondo sul suolo, dicendogli: «‹noli tangere circulos meos›» [sic!] (non ti permettere di toccare i miei cerchi). Correva l’anno 212 prima della nascita di Cristo, e Archimede aveva prodigato il suo genio nella difesa della patria assediata, costruendo congegni di guerra fantascientifici per l’epoca, tra i quali i famosi specchi ustori, che concentravano i raggi del sole sulle navi romane, incendiandole. La storia ‹è per metà vera›, perché Archimede conosceva benissimo le proprietà del “fuoco” di una parabola, e della superficie (paraboloide) che si ottiene facendola ruotare attorno al proprio asse; ‹per metà falsa›, perché Archimede non poteva possedere le tecniche di costruzione di grandi specchi parabolici.

•[2·1·17]•
Attenzione: dentro i due episodi, leggendari o storici che siano, stanno i due aspetti fondamentali della complessa personalità di Archimede. Da un lato, Archimede porta avanti, fino a farle raggiungere il punto più alto, la tradizione greca del puro studioso di geometria che si concentra su problemi puramente mentali, che non portano vantaggi pratici. Dall’altro, egli appartiene anche a un’altra tradizione, quella della Magna Grecia, dove fioriscono ingegneri, meccanici, fisici sapienti di matematica. In Grecia, all’uomo libero che si dedicava alla geometria in modo del tutto disinteressato, era vietato far uso di altri strumenti oltre riga e compasso, simboli delle due linee perfette: le dimostrazioni che facessero ricorso a procedimenti definiti per via meccanica erano respinte.

•[Fig·2·1·5]•
[Fig. 2·1·5] — Illustriamo, con la figura in alto, il metodo
meccanico di Archimede, nel caso della quadratura della parabola:
«Il segmento parabolico staccato da una corda AC della parabola è uguale ai quattro terzi del triangolo ABC». Prendiamo, per semplicità, la corda AC perpendicolare all’asse di simmetria della parabola, nel qual caso B è il vertice (punto più basso, o più alto, dipende da come si guarda) della parabola stessa.
La proporzione: HK:KN = MO:OP, può essere interpretata meccanicamente. Poiché TG=OP (si veda sempre la figura), «allora la THG farà equilibrio alla MO». Infatti, TG e MO, concepiti come «segmenti pesanti», si possono immaginare concentrati nei loro baricentri H e N, loro punti di mezzo; perciò i due «pesi», essendo inversamente proporzionali ai «bracci» HK, KN della «leva» di fulcro K, si fanno equilibrio. Ma allora il «triangolo pesante» AFC, composto dai segmenti OM, e il segmento di parabola «pesante» ABC, composto dai segmenti OP, trasportati uno per uno parallelamente a se stessi fino ad avere centro in H, si fanno equilibrio. Si vede che il triangolo AFC è quadruplo del triangolo ABC, e di qui il teorema.

•[2·1·21]•
La chiave sta nel seguente periodo: «[…] Il triangolo CFA consta delle rette tracciate nel triangolo CFA» (parallelamente al lato AF), «mentre il segmento parabolico ABC consta delle rette tracciate similmente alla OP», cioè delle corde parallele all’asse della parabola. Queste affermazioni suppongono che la regione piana (in questo caso: triangolo, segmento parabolico) sia ‹composta dalle infinite sue corde parallele a una direzione data›, implicano cioè una ‹suddivisione non solo potenziale, ma attuale›, di un continuo in ‹infinite parti›. Una cosa, infatti, è affermare che un continuo può essere suddiviso in un numero di parti ‹grande quanto si vuole›, cioè che per ogni sua suddivisione in un numero finito di parti ce n’è un’altra più «fina»; altra cosa è immaginare la ‹suddivisione compiuta saltando dal finito all’infinito›, immaginare il continuo risolto in infiniti indivisibili, di dimensione inferiore alla sua. Nel nostro caso, una regione piana “bidimensionale” (a due dimensioni, come per esempio il triangolo definito dalla base e dall’altezza) viene concepita come composta da una infinità in atto di segmenti, cioè di continui “unidimensionali” (a una dimensione, come per esempio un segmento definito dalla sua lunghezza).

•[2·1·24]•
Ciò accadrà, infatti, quasi due millenni dopo, nel Seicento, con il “metodo degli indivisibili” di Cavalieri e Torricelli, fondato sul principio del “metodo meccanico” di Archimede. Accadrà, anche se i due grandi geometri italiani non conoscevano il ‹Metodo› di Archimede, che è stato ritrovato soltanto nell’estate del 1906 dal grande filologo danese J.L. Heiberg, l’editore di Euclide e di Archimede.


•[2·2·0]•
«Che questa geometria degli indivisibili sia un’invenzione del tutto nuova, non oserei affermarlo. Crederei piuttosto che gli antichi geometri si siano serviti di questo modo nell’invenzione dei teoremi più difficili, benché nelle dimostrazioni abbiano preferito un’altra via, sia per occultare il segreto dell’arte, sia per non offrire agli invidi detrattori alcuna occasione per contraddirli» (Evangelista Torricelli, ‹Opera geometrica›, 1644).

•[2·2·1]•
Gli «invidi detrattori» della geometria degli indivisibili erano coloro che seguivano pedissequamente la filosofia aristotelica, i «peripatetici». Essi non credevano soltanto che la terra fosse al centro dell’universo, erano cioè anticopernicani e tolemaici geocentrici. Erano anche antidemocritei, antiatomisti. La battaglia principale di Galileo fu quella in difesa del sistema copernicano, “eliocentrico” (il sole è al centro dei moti celesti), che si concluse con la dura sconfitta del 1633, con la condanna del ‹Dialogo sui massimi sistemi del mondo› e l’esilio di Arcetri. Galilei era però anche atomista in fisica e per quel che riguarda la composizione del continuo; di qui sue polemiche con gli aristotelici anche in questo campo. Quando parliamo di scuola di Galilei in relazione alla questione dell’infinito attuale, ci riferiamo a Bonaventura Cavalieri (1598-1647) e a Evangelista Torricelli (1608-1647). Conviene parlare prima degli allievi Cavalieri e Torricelli, poi del loro maestro Galileo. I primi, infatti, nell’uso che fecero dell’infinito attuale, si ricollegarono, senza poterlo sapere, ma solo sospettandolo, al metodo usato da Archimede per scoprire formule di aree e volumi. Cavalieri fondò, Torricelli sviluppò, quella «geometria degli indivisibili» che fu la premessa del, “calcolo infinitesimale” (o “differenziale”), grande conquista della fine del secolo. Il «terzo grande», dopo Cavalieri e Torricelli, del metodo degli indivisibili, fu l’inglese John Wallis (1616-1703) autore della ‹Arithmetica infinitorum› (1656). La stagione degli indivisibili fu breve, perché tale metodo fu presto superato dai procedimenti infinitesimali di Newton e Leibniz.

•[2·2·13]•
Il vecchio maestro, Galileo, invece, è atomista nel modo più deciso e ardito e proclama più volte che il continuo è composto da infiniti indivisibili non quanti. E lo proclama al suo modo toscano, deridendo coloro che negano ciò che a lui sembra evidente e inoppugnabile:
«Concedo dunque a i signori filosofi che il continuo contiene quante parti quante [cioè, parti dotate di misura] piace a loro, e gli ammetto che le contenga in atto o in potenza, a loro gusto e beneplacito; ma gli soggiungo poi, che nel modo che in una linea di dieci canne si contengono dieci linee di una canna l’una, e quaranta d’un braccio l’una, e ottanta di mezzo braccio, ecc., così contiene ella punti infiniti: chiamateli poi in atto o in potenza, come più vi piace, ché io, Sig. Simplicio, in questo particolare mi rimetto al vostro arbitrio e giudizio».

•[2·2·14]•
E, soprattutto, come si legge nel passo citato all’inizio di questa seconda parte, Galileo ribalta la posizione aristotelica. Se si ammette, e non si può farne a meno, la possibilità di dividere il continuo in quante si vogliono parti quante (cioè dotate di estensione), ecco allora che l’infinito in atto non può non essere pensato, ecco, cioè, che è necessariamente pensato.
«Stante che la linea e ogni continuo siano divisibili in sempre divisibili, non veggo come si possa sfuggire, la composizione essere di infiniti indivisibili, perché una divisione e subdivisione che si possa proseguir perpetuamente, suppone che le parti siano infinite, perché altramente la subdivisione sarebbe terminabile; e l’essere le parti infinite si tira in conseguenza l’esser non quante, perché quanti [parti estese] infiniti fanno un’estensione infinita: e così abbiamo il continuo composto d’infiniti indivisibili».

Galileo era portato a comporre un continuo con infiniti indivisibili non quanti anche per ragioni fisiche e meccaniche. In primo luogo, vedeva i liquidi composti da minimi «differentissimi dai minimi quanti e divisibili» dei «corpi duri», dei solidi, e precisamente da minimi «indivisibili non quanti, e allora infiniti». In secondo luogo nella legge di caduta dei gravi, prima di raggiungere quale che sia «momento di velocità» a partire dalla quiete «si dovrà passare attraverso tutti gli infiniti momenti di velocità minore (o di tardità maggiore)», che formano un continuo di infiniti indivisibili non quanti nel tempo. Galileo, il primo uomo veramente moderno anche per l’affermazione della pensabilità (anzi: della ‹non non-pensabilità›) dell’infinito in atto, è però anche il primo a rendersi conto dei paradossi nascosti. Perciò, ardito come filosofo è cauto come matematico: non accetta i confronti tra «congerie» infinite del suo allievo Cavalieri e, nelle argomentazioni geometriche, rifiuta l’impiego degli «infiniti indivisibili non quanti», dei quali il continuo pur si compone. Ne riparleremo tra un momento, a proposito di «paradossi dell’infinito».

•[2·2·17]•
Nel 1664, Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1710) pubblicò la prima esposizione del calcolo differenziale (o infinitesimale), sugli ‹Acta Eruditorum› di Lipsia, nel saggio dal titolo: ‹Nova methodus pro maximis et minimis, itemque tangentibus› (Nuovo metodo per trovare i massimi e i minimi, e anche le tangenti). Indipendentemente da lui, l’inglese Isaac Newton (1642-1727) aveva elaborato un metodo equivalente se pur diversamente formulato; lo pubblicò però soltanto nel 1687, nel trattato ‹Philosophiae naturalis principia mathematica› (Principi matematici della filosofia naturale, cioè della fisica; il titolo stesso fa capire come Newton concepisse la matematica come strumento per la comprensione delle leggi fisiche). Mentre Newton era quello che oggi chiameremmo un «positivista», che non azzardava avanzare ipotesi filosofiche, Leibniz era, viceversa, un filosofo che si occupava di matematica per meglio sviluppare le sue idee generali; credeva nell’infinito in atto.


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ANNOTAZIONI E SPUNTI
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•[2·1·16]• Nel testo originale: «Secondo un antico racconto […] Archimede morì sessantacinquenne [sic!]», ma secondo wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Archimede) Archimede (~287- 212 a.e.v.) era invece settantacinquenne.
•[ivi]• Nel testo originale: «‹noli tangere circulos meos› [sic!]»; peccato che Archimede parlasse greco, e non avesse particolari motivazioni per apprendere il latino; la frase risulta attribuita allo scienziato siracusano da una “leggenda” non meglio specificata (wikipedia vi dedica persino una pagina: https://it.wikipedia.org/wiki/Noli_turbare_circulos_meos); leggenda che venne evidentemente tramandata in latino. Secondo un’altra versione, la frase sarebbe stata «noli, obsecro, istum disturbare» (non rovinare, ti prego, questo disegno); tuttavia pare poco probabile che vi fossero testimoni, e l’unica fonte potrebbe esser stato il soldato romano autore dell’uccisione.
NOTA: varie tradizioni asseriscono che della morte di Archimede per mano di un soldato romano si rammaricò persino il comandante delle truppe romane, Marcello, il quale aveva dato espresso ordine ai suoi soldati di non nuocere all’anziano scienziato (che aveva all’epoca 75 anni); nessuno di questi racconti fa cenno di difficoltà linguistiche, attribuendo invece la morte dello scienziato a un malinteso o alla sua straordinaria capacità di concentrazione, che gli avrebbe fatto trascurare il pericolo.
•[ivi]• «Correva l’anno 212 prima della nascita di Cristo […]»: anno più, anno meno, perché come sappiamo la datazione della “nascita di Cristo” su cui si fonda il calendario è errata di diversi anni; diciamo che si tratta di una nascita “convenzionale” (cioè inventata).
•[ivi]• «[…] Archimede non poteva possedere le tecniche di costruzione di grandi specchi parabolici»: anche questa affermazione è vera soltanto a metà, perché pare la lanterna del grande faro del porto di Alessandria fosse dotata di un grande specchio parabolico (vedi L. Russo, ‹La rivoluzione dimenticata›, che è del 1996, quando LR era già scomparso).

•[2·1·17]• «[…] Magna Grecia, dove fioriscono ingegneri, meccanici, fisici sapienti di matematica»: LR però non chiarisce il (o i) perché di questa differenza tra cultura della madrepatria e cultura delle colonie greche; è una differenza cronologica, economica, sociale, politica? Oltretutto, non esisteva solo la Magna Grecia. Tenendo presente il saggio di L. Russo ‹La rivoluzione dimenticata›, viene il dubbio che qui “Magna Grecia” stia in realtà per “scienza ellenistica”; Archimede muore nel 212 ed Alessandro Magno era morto nel 323, tra i 2, oltre un secolo (111 anni) di straordinario sviluppo scientifico.

•[2·1·21]• «[…] come per esempio un segmento definito dalla sua lunghezza»: inevitabilmente, torna qui in mente la celebre espressione delle ‹Definizioni di Erone› inserite negli ‹Elementi› di Euclide: «la linea è lunghezza senza larghezza»; essa acquista però un senso nuovo quando si consideri che infinite larghezze infinitesime possono formare una superficie di estensione finita, così come infiniti spessori infinitesimi possono formare un volume.

•[2·1·24]• «[…] il “metodo degli indivisibili” di Cavalieri e Torricelli […che…] non conoscevano il ‹Metodo› di Archimede, […] ritrovato soltanto nell’estate del 1906 […]»: “i due grandi geometri italiani” hanno riscoperto l’acqua calda, oppure qualche “suggerimento” era loro pervenuto attraverso vie a noi ignote? È risaputo che già il Rinascimento venne alimentato da un flusso di opere antiche che viaggiavano – talvolta clandestinamente – da Oriente (specie da Costantinopoli) a Occidente, e molte delle quali andarono successivamente distrutte.
NOTA: del resto, l’ipotesi sembra adombrata persino da LR laddove, nel cpv. successivo, scrive: «facciamo finta di non aver mai letto il ‹Metodo› di Archimede, di sospettarne al più l’esistenza» per mettersi «nella testa di Galilei, di Cavalieri, di Torricelli». E cfr. anche la citazione da Torricelli riportata all’inizio del capitolo successivo (cpv. 2·2·0).

•[2·2·0]• Nella citazione: «[…] per non offrire agli invidi detrattori alcuna occasione per contraddirli» (Torricelli); gli “invidi detrattori” incombevano anche 18 secoli dopo Archimede, all’epoca di Galileo e Torricelli.

•[2·2·1]• «[…] in difesa del sistema copernicano, “eliocentrico” […]»: per la precisione, il sistema proposto da Copernico nel ‹De revolutionibus› non era “eliocentrico” bensì “eliostatico”, cioè il Sole stava fermo “in prossimità” del centro dell’orbita terrestre – che d’altra parte, come sappiamo dopo Keplero, è ellittica e non circolare, e dunque non ha un “centro” – d’altronde, Copernico non faceva alcuna ipotesi sulle “cause” dei moti circolari della Terra o dei pianeti; per la teoria della gravitazione si dovrà attendere Newton.
•[ivi]• «[…] Bonaventura Cavalieri (1598-1647) […] Evangelista Torricelli (1608-1647)»: i 2 allievi di Galilei muoiono nello stesso anno, il 1° a 49 anni, il 2° a soli 39? Anzi, poco più di un mese l’uno dopo l’altro.
NOTA: Torricelli muore a Firenze, il 25 ottobre 1647, dopo aver contratto probabilmente il tifo o la polmonite; Cavalieri muore il 30 novembre dello stesso anno a Bologna, dove aveva trascorso gli ultimi anni, “molestato da continui malanni” (fonte: wikipedia).

•[2·2·10]• Nel testo originale: «Così Cavalieri nella lettera del 28 giugno 1639 […] e lo esalta perché», tipograficamente, la frase è inclusa nella citazione, mentre con tutta evidenza si tratta di un intercalare (di LR) tra due brani citati dalla lettera di Cavalieri; impaginazione modificata.

•[2·2·13]• Nel testo originale della citazione: «Concedo dunque a’ i [sic!] signori filosofi […]», il correttore ortografico suggerisce “a ’i”, ma senza addurre spiegazioni; potrebbe forse essere forma elisa per “a gli”; ma da ricerche su google risulta che l’apostrofo è spurio (vedi passo riportato sotto); apostrofo eliminato.
•[ivi]• Nel testo originale della citazione: «[…] chamateli [sic!] poi in atto o in potenza […]», sembra un refuso, ma potrebbe anche trattarsi di una particolare grafia toscana dell’epoca; cercando invece il brano su google (vedi qui sotto) risulta valida la 1ª ipotesi; corretto.
Concedo dunque a i Signori Filosofi, che il continuo contiene quante parti quante piace a loro, e gli ammetto, che le contenga in atto, o in potenza a loro gusto, e beneplacito; ma gli soggiungo poi, che nel modo che in una linea di dieci canne si contengono dieci linee d’una canna l’una, e quaranta d’un braccio l’una, e ottanta di mezzo braccio, così contiene ella punti infiniti: chiamateli poi in atto, o in potenza, come più vi piace, ché io, Sig. Simp., in questo particolare mi rimetto al vostro arbitrio, e giudizio.
Notare la differente punteggiatura, e altre piccole variazioni nella grafia che non riportiamo, limitandoci a correggere i due refusi segnalati.

•[2·2·14]• Nella citazione: «Stante che la linea e ogni continuo siano divisibili in sempre divisibili […]» (Galilei), compare la linea in senso proprio (quello che ci interessa), ma soltanto per affermare la sua indefinita divisibilità, come del resto avviene per ogni grandezza continua; la linea sarebbe costituita da un numero infinito di “indivisibili”, cioè punti.

•[2·2·17]• «[…] Newton era quello che oggi chiameremmo un “positivista” […]»: il che non gli impediva di dedicare un tempo considerevole agli studi sulla cronologia biblica né, a quanto pare, all’alchimia; solo che i suoi scritti in materia non li divulgò, e divennero noti molto dopo la sua morte.
NOTA: del resto, gli studi di astrologia e la redazione di oroscopi erano attività piuttosto diffuse, all’epoca, tra gli astronomi; lo stesso Galileo pare non li disdegnasse (vedi wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Galileo_Galilei#Galilei_astrologo), e Claudio Tolomeo, rinomato quale astronomo e autore dell’‹Almagesto›, aveva composto anche un trattato “scientifico” sull’astrologia: ‹Delle previsioni astrologiche›, conosciuto anche come ‹Tetrabiblos› (vedi wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Tetrabiblos).

•[Fig·2·1·5]• Nella didascalia: «La proporzione: HK:KN = MO:OP […]», ma l’illustrazione del “metodo meccanico” non risulta affatto chiara; forse la figura trae in inganno (B non sembra coincidere col vertice della parabola e non sono chiare le relazioni fra i vari segmenti), comunque non si capiscono significato e funzione del punto W (si direbbe il “baricentro” del triangolo, ma non è mai menzionato nel testo), né se la lunghezza del “braccio” HK vari al variare di O lungo AC. Potrebbe essere stato soppresso del testo per “snellire” la spiegazione?

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[] Lucio Lombardo Radice, ‹L’infinito›, Editori Riuniti (1981), 2006.
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